Marina Abramovic: l’arte oggi è solo merce, io cerco universali
“Questa non è una mostra normale, non è come le altre, è una mostra vivente, è qualcosa che è effettivamente vita, stiamo parlando di un’esposizione con coinvolti 32 performer”. L’artista, questa volta era presente. Marina Abramovic è tornata a Palazzo Strozzi a Firenze, dove la sua mostra “The Cleaner” ha già superato i 100mila visitatori e ha debuttato mettendo subito in chiaro, se così si può dire, le regole della casa. L’occasione è stata la rimessa in scena della sua celebre performance “The House with the Ocean View”, con una più giovane artista a interpretarla. “Per me – ha detto l’artista – è straordinario il fatto di poter trasferire il mio lavoro alle generazioni più giovani e loro lo possono prendere e io non ci devo essere necessariamente. L’opera deve vivere e questa è la cosa più importante. L’oceano a cui guarda la casa è proprio il pubblico. E con questo lavoro ho sviluppato una forte sensazione della temporaneità, oltre che un rapporto più forte con il presente, che è l’unica realtà che abbiamo davvero”.
Abramovic ha poi voluto raccontare anche le proprie sensazioni durante i 12 giorni passati in tre ambienti aperti e inaccessibili, senza cibo, senza parlare, senza scrivere. “Quello che fai – ha spiegato – è cominciare a guardare te stessa, a verificare il respiro, cominci a fare attenzione a quelle cose che normalmente trascuri, a dei dettagli. E quindi quando il performer incrocia lo sguardo con il pubblico quello scambio di sguardi diventa terribilmente importante, perché la fonte di energia è il pubblico stesso”. E in effetti, visitando la mostra fiorentina, si capisce che lo scambio con il pubblico è parte essenziale del lavoro, ma quasi in forma di esperimento: la performer rischia, e molto, ma a un certo punto questo rischio si sposta sul pubblico, e noi proviamo paura, o dolore, o sconcerto, per lei certo, ma soprattutto per noi. E qui la mostra si attiva realmente, in modi che restano difficili da definire.
“A fine anni Settanta – ha poi raccontato Marina Abramovic – la performance era anche un evento fashion, c’era una comunità di gente alla moda che seguiva le performance. Questa cosa è completamente finita, perché l’arte è diventata una merce, perché è troppo costosa ed è schiava del mercato”. Parole forse non nuovissime, ma che dette da un’icona assumono probabilmente un altro significato, che ha a che fare anche con la dinamica di presenza-assenza (ma anche vita-morte se volete) che informa tutta l’opera della Abramovic. “Di fronte al pubblico – ha detto – si attiva qualcosa che posso definire un super-sé. Più si va a fondo in se stessi, più si diventa universali come artisti”. Decisiva, soprattutto in un’opera come quella della casa sull’Oceano, è la riflessione sul tempo, che appare un altro dei fili rossi filosofici chiave per avvicinarsi con serietà al lavoro di Marina Abramovic, per chi non si accontenta di letture scontate, così come delle facili categorizzazioni. “Non posso dire che il mio lavoro sia politico, o sociale, spirituale o disturbante – ha concluso l’artista – È tutte queste cose insieme. E credo che più un lavoro è stratificato, più dura nel tempo”. Stratificazione che è anche la chiave della vita delle opere di Marina Abramovic oltre la performance, e anche oltre la semplice funzione di documentazione.
Perchè quello che incontriamo a Palazzo Strozzi sono quasi delle rovine, che prendono senso solo in virtù della riscoperta da parte dello spettatore. Così quando ci si siede sulla sedia della mitica azione “The Artist is Present” del MoMA di New York, la Abramovic non c’è davanti a noi, non c’è glamour, non c’è condivisione. Solo uno specchio di noi stessi, scarno come le linee essenziali del mobilio. Ma che, in uno dei possibili modi, non l’unico, certo, ci restituisce qualcosa che somiglia al senso dell’arte. “Io credo in quello che faccio – ha concluso Marina Abramovic – amo quello che faccio e lo farò finché vivo”. Del resto per una performer è difficile immaginare un destino diverso